Venerdì, 23 Giugno 2017 10:32

Urbanistica vs. Commercio. Chi prevale?

1. Il titolo, che evoca scenari sportivi, intende richiamare l’attenzione sui rapporti tra pianificazione urbanistica e pianificazione commerciale. Si tratta di un tema assai noto su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e che, anche alla luce della cd. Direttiva Bolkestein (recepita nel nostro ordinamento con D. Lgs. 26/03/2010, n. 59) e della cd. SCIA2 (approvata con d.lgs. 22/11/2016, n. 222), è tornato di recente all’attenzione pure dei non addetti ai lavori. Il rapporto tra queste due tipologie di pianificazione viene affrontato nuovamente dal Consiglio di Stato che, con sentenza della sezione IV, 06/06/2017, n. 2699 (allegata in pdf per pronta consultazione), fornisce utili spunti per chiunque (commerciante, cittadino, operatore della P.A.) abbia a che fare con tali materie.

2. Il caso trae origine da una variante urbanistica in un Comune dell’Emilia-Romagna che, in estrema sintesi, consentiva in un determinato comparto l’introduzione di nuove strutture di vendita “medio grandi” di prodotti alimentari solo in caso di “ampliamento di analoga struttura medio piccola già esistente”. Tale limitazione era motivata dall’intento di “preservare il tessuto commerciale alimentare esistente, formato da tanti piccoli esercizi di vicinato, dalla creazione di nuove medie strutture di vendita”.

La differenza rispetto al regime urbanistico previgente, con la sopravvenuta impossibilità di inserire nel medesimo comparto nuove strutture di vendita “medio grandi” di prodotti non alimentari (come, invece, ammesso in altro comparto limitrofo), induceva un proprietario dapprima a presentare osservazioni generiche nell’ambito del procedimento di variante e, successivamente, ad impugnare al Tar Emilia-Romagna, sede di Parma, la delibera comunale di approvazione della variante “lamentando sostanzialmente che il Comune non avrebbe consentito, relativamente all’ambito in cui ricade il fondo di proprietà, l’apertura di nuove strutture di vendita di generi non alimentari”.

Il Tar Parma, con sentenza della I sezione 04/08/2016, n. 127, dichiarava inammissibile il ricorso presentato dal privato che proponeva appello al Consiglio di Stato. Quest’ultimo, pur confermando con diverse motivazioni la citata sentenza del Tar, Parma, sez. I, n. 127/2016, ha avuto modo di chiarire alcuni aspetti che vanno ben al di là del caso deciso.

In primo luogo, la sentenza n. 2699/2017 della IV sezione del Consiglio di Stato afferma che non può definirsi contraddittoria la scelta di distinguere tra comparti contigui in cui consentire, da un lato, la possibilità di inserire nuove attività commerciali alimentari e, dall’altro, di escluderla per nuove attività commerciali non alimentari.

Infatti, la dichiarata intenzione comunale di “salvaguardare le attività di vicinato del centro del capoluogo” legittima una diversa disciplina urbanistica tra due comparti (e, va aggiunto, l’esclusione di prodotti non alimentari nel primo dei comparti) anche perché “la sola vicinanza tra loro non può essere motivo ostativo alle scelte pianificatorie dell’Amministrazione”.

Né, precisa in secondo luogo la sentenza del Consiglio di Stato, tali diverse scelte sono affette da “errori di fatto, abnormi illogicità, violazioni procedurali ovvero che, per quanto riguarda la destinazione di specifiche aree, risultino confliggenti con particolari situazioni che abbiano ingenerato affidamenti e aspettative qualificate (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28/09/2016, n. 4022)”. Si tratta, infatti, di una diversa tipologia di aree: “quella in cui ricade la proprietà dell’appellante è stata sempre adibita ad attività aziendali di edilizia, arredamenti, mobili ed è satura… . L’altra” [ossia quella in cui, con la variante, era stato consentito l’inserimento di nuove strutture di vendita medio grandi] “è invece un’area di espansione”.

Da qui, la conferma della legittimità della variante urbanistica anche con riferimento alle disposizioni in materia di libertà di apertura di nuovi esercizi commerciali e, in particolare, all’art. 31, decreto-legge 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella legge 22/12/2011, n. 214 su cui si sofferma la sentenza n. 2699/2017 della IV sezione del Consiglio di Stato. Secondo l’interpretazione fornitane nella sentenza, infatti, l’art. 31 del decreto-legge n. 201/2011 consente ai Comuni di operare scelte di pianificazione al fine di garantire un corretto insediamento delle strutture di vendita con riferimento anche agli aspetti connessi all’ambiente urbano, per cui rimane valido il principio già elaborato in giurisprudenza secondo il quale “le prescrizioni contenute nei piani urbanistici, infatti, rispondendo all'esigenza di assicurare un ordinato assetto del territorio, possono porre limiti agli insediamenti degli esercizi commerciali e dunque alla libertà di iniziativa economica. La diversità degli interessi pubblici tutelati impedisce di attribuire in astratto prevalenza, come sostenuto dall’appellante, alle norme in materia commerciale rispetto al piano urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10/04/2012, n. 2060)”.

3. Come anticipato all’inizio del presente contributo, quindi, è evidente come il tema presenti delle rilevanti implicazioni pratiche (basti pensare al rapporto tra tutela dei valori storico-artistici e tutela dell’iniziativa economica privata, entrambe previste costituzionalmente) ed è noto come lo stesso sia stato oggetto anche di successive iniziative legislative.

L’art. 1, comma 4, d.lgs. 25/11/2016, n. 222 (cd. SCIA2), infatti, prevede la possibilità per il Comune, d’intesa con la Regione e sentita la competente Soprintendenza statale, di delimitare zone o aree aventi particolare valore archeologico, storico, artistico o paesaggistico, in cui “è vietato o subordinato ad autorizzazione rilasciata ai sensi dell’art. 15 del decreto legislativo 26/03/2010 n. 59, l’esercizio di una o più attività del decreto” [n. 222/2016] “individuate con riferimento al tipo o alla categoria merceologica, in quanto non compatibile con le esigenze di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale”.

Se l’obiettivo della disposizione è chiaro, evitare che attività commerciali o altre attività indicate nella tabella A del d.lgs. 222/2016 possano essere realizzate in aree in cui deve prevalere la tutela degli interessi prioritari costituzionalmente garantiti ex art. 9 Cost., non è altrettanto chiaro quale sia il rapporto con l’art. 52, d.lgs. 22/01/2004, n. 42 (cd. Codice Urbani) che anticipava siffatta tutela limitatamente al settore del commercio.

Giova sul punto ricordare, infatti, che l’art. 52, d.lgs. 42/2004 sul cd. decoro urbano è stato già oggetto di un intervento della Corte costituzionale che, con sentenza 09/07/2015, n. 140, ha dichiarato illegittimo tale articolo nella parte in cui non prevedeva l’intesa a garanzia della leale collaborazione fra Stato e Regioni per l’adozione di determinazioni volte a vietare gli usi da ritenere non compatibili con le specifiche esigenze di tutela e di valorizzazione, comprese le forme di uso pubblico non soggette a concessione di uso individuale, quali le attività ambulanti senza posteggio, nonché il rilascio di concessioni di occupazione di suolo pubblico (cfr. anche Cons. Stato, sez. V, 19/04/2017, n. 1816, relativamente alla modifica dell’assetto del mercato tradizionale di San Lorenzo in Firenze o, per usare le parole della sentenza, alla “parziale ridefinizione del perimetro mercatale”).

Oggi, salvo futuri orientamenti giurisprudenziali sulla nuova disposizione dell’art. 1, comma 4, d.lgs. 222/2016 (implicitamente fatta salva dall’art. 15, d.P.R. 13/02/2017, n. 31 sull’autorizzazione paesaggistica semplificata), è lecito affermare che le forme di tutela dell’art. 52, d.lgs. 42/2004 costituiscano lo scopo ultimo delle limitazioni previste nell’art. 1, comma 4, cit. in maniera non dissimile da quanto indicato nell’art. 31, decreto-legge n. 201/2011 cit..

Inoltre, sotto un profilo più strettamente procedimentale, queste limitazioni devono essere oggetto di separate intese inter-istituzionali tra Comune e Regione, con il coinvolgimento in sede consultiva degli organi periferici del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, ex art. 1, comma 4, d.lgs. 222/2016, debitamente notiziate ed oggetto di specifico apporto partecipativo dei soggetti potenzialmente incisi da tali limitazioni.

L’oggetto di tale intesa trova il suo fondamento, quindi, nell’art. 15, legge 07/08/1990, n. 241 e vede come capofila il Comune.

Tale intesa, sulla falsariga del punto 3.1 “Regolamentazione del commercio nelle aree pubbliche” della direttiva ministeriale 10/10/2012 “Esercizio di attività commerciali e artigianali su aree pubbliche in forma ambulante o su posteggio, nonché di qualsiasi altra attività non compatibile con le esigenze di tutela del patrimonio culturale” (in G.U. 09/11/2012, n. 262), si deve trasporre in deliberazioni che, valorizzando i compiti degli enti territoriali afferenti alla tutela del patrimonio storico-artistico (cfr.Cons. Stato, sez. VI, 07/05/2015, n. 2302), individuino zone di divieto assoluto in ragione di tali interessi super-primari o, in determinati casi, zone in cui deve essere conseguita l’autorizzazione espressa di cui all’art. 15, d.lgs. 59/2010 con cui è stata recepita nel nostro ordinamento la Direttiva Bolkestein.

Sapranno i Comuni e gli altri soggetti (Stato e Regione) affrontare queste ed altre sfide poste da un ordinamento sempre più stratificato? Ai posteri l’ardua sentenza

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Pubblicato in Edilizia Privata

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